Nicolas Maduro – il successore designato prima di morire dal Presidente Hugo Chàvez – ha vinto le elezioni in Venezuela, nonostante l’opposizione filo-americana capeggiata da Henrique Capriles non ammetta la vittoria del candidato del Partito Socialista Unito venezuelano (PSUV).

La borghesia compradora attacca

Dopo 14 anni di Rivoluzione, la destra rappresentante della borghesia compradora ha sfruttato il passaggio storico determinato dal decesso di Chàvez per condurre una campagna elettorale all’attacco che ha messo a dura prova (benché non l’abbia sconfitta) la resistenza delle forze bolivariane. Negli ultimi tempi, infatti, gli esperti in marketing che seguivano Capriles hanno tentato di rifargli il look, creandogli un’aura sociale e definendolo come il “Lula venezuelano”, adducendo un maggiore “equilibrio” rispetto a Chàvez. Questa cosmesi è stata smascherata con le azioni violente messe in atto dopo il verdetto delle urne; tuttavia sarà probabilmente ripresentata al prossimo appuntamento sotto sembianze simili ma più affinate.

Il rifiuto di Capriles di riconoscere la vittoria di Maduro e la richiesta (peraltro fino all’ultimo mai formalizzata, ma solo declamata tramite i media) di ricontare le schede è stato un segnale nella direzione di un possibile scontro politico ancora più estremo che sarebbe potuto sfociare sia in un golpe (come successo invano nel 2002) sia in una guerra civile, che sarebbe probabilmente fatale non solo per il socialismo venezuelano, ma che avrebbe serie ripercussioni sul processo di trasformazione in corso in ampia parte dell’America latina. Nei prossimi mesi questi pericoli saranno una costante: sarà utile non solo che i rivoluzionari venezuelani stiano vigili, ma che il governo di Caracas sappia mettere in campo con la necessaria energia anche misure repressive a difesa della sovranità e della democrazia socialista. Se vi saranno serrate padronali o interruzioni della produzione (23 persone sono state arrestate dal 5 marzo ad oggi per sabotaggio alla rete elettrica) si dovrà rispondere l’occupazione operaia delle fabbriche, come in parte già sperimentato nel 2002, e il successiva esproprio. Tutte misure che Maduro ben conosce, avendole recentemente egli stesso ventilate.

Se dopo la Rivoluzione cubana, in effetti, gli USA espatriarono i borghesi; qui al contrario, li hanno foraggiati affinché restassero nel paese e dessero vita, sfruttando le libertà democratiche previste dalla Costituzione bolivariana, azioni di destabilizzazione con fini golpisti. Se tali nicchie borghesi esistono tuttora, però, non è solo a causa dell’ingerenza di Washington; ma anche perché il Venezuela non ha ancora compiuto nella sua totalità il processo rivoluzionario. Esistono infatti tuttora settori fondamentali sia nell’apparato statale sia nel settore dei media (che poi creano il consenso) sotto controllo privato, il che significa potenzialmente in mano all’imperialismo. Chàvenz ne era consapevole, da qui la sua esortazione a rafforzare i consigli comunali autogestiti, la socializzazione dei mass-media e della cultura, ecc. senza però cadere nell’illusione che “chiamando tutto socialista, uno può pensare che questo l’ho fatto, è a posto, è socialista, gli ho cambiato nome, è tutto a posto”, come avvertì una volta, invitando i compagni all’autocritica.

La questione dello Stato e delle elezioni

Il processo rivoluzionario venezuelano presenta caratteristiche particolari: è evidente che non siamo di fronte agli stessi metodi della Rivoluzione bolscevica. E tuttavia anche i “chavisti” si devono ora interrogare su come procedere: essere al governo non significa infatti ancora aver preso il potere! Il socialismo non si costruisce infatti semplicemente governando un paese che resta capitalista nella sua struttura. Ecco quindi che il tema della competizione elettorale con la borghesia attraverso le regole del liberalismo (da lei dettate) non può più venire eluso: le rivoluzioni non si fanno per via elettorale, anche se certamente da lì possono partire. Esse devono poi, però, saper sviluppare elementi di contro-potere con vocazione egemonica. Tale riflessione è necessaria per evitare non solo scenari fascisti (come quelli che schiacciarono l’esperienza cilena di Allende), ma anche scenari di cocenti sconfitte elettorali (come quella del 1990 ai danni del Nicaragua sandinista).

Le elezioni parlamentari di tipo liberale, per quanto necessarie tatticamente in ottica marxista, sono pur sempre il terreno che più conviene alla borghesia. Non c’entra quindi molto il “debole” carisma di Maduro rispetto a quello di Chavez: per quanto la comunicazione sia importante, questa è una’analisi che si limita al dato sovrastrutturale e quindi è di per sé debole. Il “chavismo” ha infatti un suo blocco storico e le aspirazioni anti-imperialiste delle masse vanno ben oltre il semplice leader carismatico, soprattutto oggi dopo 14 anni di bolivarismo. Non va peraltro banalizzato il fatto che l’opposizione compradora di Capriles eserciti ora una guerra psicologica che – se le strutture dello Stato (liberale) venezuelano non verranno superate – potrebbe trasformarsi in qualcosa di peggio. Chàvez ne era cosciente: di recente aveva esplicitamente fatto riferimento proprio alla concezione leninista dello Stato come apparato non neutrale ma di classe.

Il socialismo, infatti, può avanzare dopo una prima fase riformatrice (e non riformista!) che Chàvez ha saputo costruire rimanendo nelle contraddizioni del sistema borghese attraverso una sempre più chiara pianificazione economica (pur con tutti i margini di mercato ancora necessari) e con una progressiva forma di controllo operaio delle industrie e di comitati popolari di difesa della Rivoluzione nei quartieri.

Intensificare il processo rivoluzionario

Se lo Stato bolivariano vuole garantirsi una continuità, è necessario che i suoi vertici procedano nella riscoperta di Lenin: una rottura vieppiù definitiva con le forme istituzionali tipiche del sistema borghese-democratico deve quindi essere posta all’ordine del giorno, così come una lotta senza remore a quei centri di potere economico che servono all’oligarchia per costruirsi il consenso. In quest’ottica l’intenzione espressa da Maduro di integrare il Partito Comunista del Venezuela (PCV) nella Direzione politico-militare della Rivoluzione è un passo corretto. Si tratta infatti ora di procedere nella costruzione materiale del socialismo, adottando un adeguato programma di fase marxista con tre misure centrali: 1) il totale passaggio sotto il controllo dello Stato della Banca Nazionale (per impedire ogni manovra speculativa); 2) la statalizzazione di tutto il settore del commercio estero (per porre fine all’utilizzo da parte della borghesia del sistema di transazioni per i titoli di valuta estera e 3) il lancio di una campagna di industrializzazione nell’ottica di estendere le attività produttive statali, utilizzando le risorse petrolifere in questa prospettiva. Dopo aver mitigato i divari sociali più gravi, insomma, bisogna investire nelle infrastrutture: senza la creazione di solide basi economiche, infatti, non vi è socialismo possibile, come peraltro insegna la strategia della Cina. E ciò tenenendo però presente il monito di Chàvez: “non dobbiamo continuare ad inaugurare fabbriche che siano come un’isola, attorniate dal mare del capitalismo, perché altrimenti il mare le inghiotte”.

Le premesse per fare bene ci sono tutte: il “Piano della Patria” ripreso da Maduro è infatti la stessa piattaforma programmatica annunciata da Chavez nella sua ultima campagna elettorale (ottobre 2012) che prevede lo sviluppo economico e delle infrastrutture, l’approfondimento delle riforme sociali, il rafforzamento della sovranità nazionale nell’ottica di una più ampia dell’integrazione latino-americana in relazione alla lotta anti-imperialista sul piano internazionale e l’aumento del protagonismo popolare per garantire la transizione socialista e per vigilare che non vi siano forme di infiltrazione borghese negli apparati statali e militari, come peraltro ha chiarito in un’intervista al quotidiano tedesco “JungeWelt” Adán Chávez, fratello di Hugo, che non ha nascosto problemi di corruzione e di burocratismo in alcuni settori dello stesso PSUV, sia di opportunisti arrivisti in camicia rossa sia di membri di quella parte di borghesia nazionale finora fedele a Chàvez (la quale per convenienza si era convertita al socialismo) ma che potrebbe ora frenare dall’interno la Rivoluzione.

“…la lucha sigue”

Dalle elezioni dell’ottobre 2012 le forze bolivariane hanno perso 680mila voti, in buona parte a favore di Capriles. E’ un dato importante che deve servire a correggere gli errori: a partire da un maggior controllo e selezione dei quadri politici e da una conseguente epurazione dall’apparato di chi non si dimostra degno di fiducia. Ma tutto ciò, come abbiamo visto, non avrà effetti duraturi se nel contempo non si intensificherà la lotta contro le sacche rimaste di capitalismo e di potere (ideologico ed economico) borghese e se non si favorirà un ulteriore coinvolgimento dei salariati sui posti di lavoro, degli studenti nelle scuole, delle classi popolari nei quartieri e nei villaggi. La destra non è forte sul territorio: è qui che la supremazia bolivariana non deve lasciarle spazi.

Il pericolo più serio, forse, non è tanto la possibilità di un golpe, ma la guerra di logoramento che condurrà la borghesia compradora: la lacune nella gestione dello Stato possono portare un certo malumore fra gli stessi ambienti “chàvisti”: la destra ha attivamente lavorato (a volte con la complicità dei burocrati sindacali) come lo fece peraltro con Allende a esasperare la popolazione attraverso il metodico taglio dei rifornimenti di prodotti essenziali (alimentari, energia, ecc.) e facendo cadere la colpa sull’inefficienza del governo socialista. In altri momenti potrebbero anche scatenare attentati terroristici (lo fecero in Nicaragua dove fu ucciso anche il giovane cooperante svizzero Maurice Demierre). Tutto ciò – con la martellante campagna denigratoria contro Maduro – facilita la diserzione di numerosi votanti bolivariani.

Nonostante questo articolo, pur ribadendo la necessaria umiltà e rispetto, ponga volutamente e con franchezza i punti ancora critici nel processo venezuelano, bisogna sottolineare che i rapporti di forza sono ben favorevoli ai fautori del socialismo: fino al 2016 in parlamento vi sono 95 deputati chavisti su 165 e Maduro sarà sostenuto da 20 dei 23 governatori sul territorio nazionale, oltre che dagli importanti partner geostrategici anti-imperialisti. C’è ora il tempo, per la direzione politico-militare della Rivoluzione, di fortificare la magnifica esperienza di pace, democrazia partecipativa e solidarietà di classe che rappresenta il Venezuela. E non abbiamo dubbi che ciò avverrà. Come si legge nella dichiarazione del Partito Comunista ticinese dello scorso 5 marzo: “Chavez ha restituito speranza non solo al suo popolo e all’intera America latina depredata da Washington e dai suoi lacché, ma a tutti i progressisti del mondo. Egli ha affrontato con coraggio l’imperialismo statunitense, ha gettato le basi per una nuova transizione alla società socialista e per un mondo multipolare retto da relazioni eque e pacifiche fra le nazioni, e ha lavorato giorno dopo giorno per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori e delle fasce popolari”. L’insegnamento di Hugo Chàvez è così profondo che non possiamo non concludere questo testo con la sicurezza che tutti i venezuelani onesti e le persone di buona volontà sul pianeta ancora commossi dalla sua morte, hanno in chiaro che Chàvez vive e che …la lucha sigue!

  • Questo articolo è stato pubblicato sul nr. 1 della rivista #politicanuova (link) del luglio 2013.